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mercoledì 13 febbraio 2013

Ora delle scene mute

Quelle sulla fatina della casa, non son mica ciance. No, sono storie vere, come i mostri sotto il letto o gli scheletri negli armadi, o Babbo Natale. La fatina della casa girovaga per le stanze ballando. Le case molto grandi hanno anche più fatine, all'occorrenza. Dei fatini delle case nessuno parla, ma ci sono anche loro. Sono come i sirenetti, che poi a non nominarli mai uno pensa non ci siano.
Quindi, ecco, la fatina della casa, va rispettata. La regola fondamentale è salutare entrando nella casa vuota. Buongiorno, Buonasera. Che salutare non fa male a nessuno e non costa. E poi è buona educazione. 
Se non si saluta, la fatina si indispone, insomma mica si può non salutare una che sta sempre in casa tua. Sono dispettose, le fatine, alcune più di altre. Se non le si saluta nascondono gli oggetti, spaiano i calzini, spostano i quadri, mettono gli sgambetti, fanno rumore nelle altre stanze vuote, quando non c'è nessuno. 
Quindi, una volta per tutte. Rispettate la fatina della vostra casa. E anche delle case degli altri. 

sabato 4 agosto 2012

Ora dei pulcini pio

Cominciò ad avere la vaga sensazione di essere ubriaca. La testa dolente, il corpo stanco e pesante, pesante come il cuore, annerito, da trascinarsi dietro.
 La sua anima persa dentro da qualche parte, impegnata nel tentativo di impedire alle emozioni di salire senza freni alla bocca e alla testa.
Vide la superficie del mare, ed il mondo fuori, il cielo liquido e le stelle lucide, coperte dal velo della superficie del mare. Un dipinto. Poi le emozioni e l'ubriachezza ebbero la meglio.
 Si lasciò scivolare, senza peso, nell'acqua scura, brodaglia calda e nera che è il mare, la sera. Perse i sensi, scivolando in un sonno dolce. Lì, nell'abbraccio delle onde, nel ventre del mare. Avvolta.
 Il mare la consegnò alla riva, una riva dalla sabbia morbida che accolse quel corpo sottile, quei fianchi, quei seni, quei lunghi capelli e quel viso accarezzato dal sonno dolce e ubriaco. Il mare la lasciò lì, stesa sulla sabbia, il corpo abbandonato e nudo e bellissimo e ubriaco e accarezzato dalla luna pallida, il cui riflesso faceva splendere (come se per una volta alla luna non gliene fregasse niente di essere la più bella), la lunga coda.

sabato 12 maggio 2012

Ora del gelato alla liquirizia

Non sapeva dell'esistenza di quel posto. Fu lo zio, quella mattina, a dargli quella chiave e dirgli che, se gli andava di starsene un po' da solo, poteva andare lì. 
E in effetti lui, quel pomeriggio, ci andò. Ora, davvero si sarebbe aspettato di tutto, lì dentro. Ma mai -mai-  una donna.  Seduta per terra con la schiena al muro, aveva un abito da sera rosso e delle scarpe col tacco, i capelli raccolti ed il volto truccato. Lui le avrebbe dato quarant'anni, ma ai giovani gli adulti sembrano sempre un po' più grandi di quello che sono. Neanche lei, a dir la verità, si sarebbe aspettata mai -mai- di veder entrare un ragazzo, lì. Lei gli avrebbe dato non più di diciotto anni, ma non si è mai certi in quell'età lì, per la storia dello sviluppo che non avviene sempre nello stesso momento e cose così. 
Si sedette per terra anche lui, con la schiena sul muro, di fronte a lei. Cioè, non proprio di fronte, per darle la possibilità di guardare dritto nel vuoto senza per forza averlo davanti. Era una cosa sensata. 

Vagarono con gli occhi per la stanza, poggiandosi su tutto e su niente. Evitandosi, come se fossero entrambi soli. 
Poi abbandonarono la paura di essere invadenti e presero a guardarsi. La prima cosa che gli occhi di lei cercarono, furono le sue mani. Poi il resto, piano, senza fretta. Arrivarono agli occhi. 
Rimasero così, a guardarsi, per un tempo che nessuno sa. 
Negli occhi. 

Lei, poi, scoppiò in lacrime. Piangeva in un modo che chiunque l'avesse vista, si sarebbe sentito inutile. Lui rimase immobile, non poteva esserci gesto o parola, valido, sensato. 
Era come se non piangesse da anni. 
Come se non avesse mai -mai- pianto. 
Come se nessuno avrebbe mai potuto consolarla. Lui non aveva mai visto una donna piangere in quel modo. 
Faceva troppo male. Chiunque l'avesse vista, avrebbe sofferto un po'. 
Piangeva di rabbia, ora. Si slacciò le scarpe alte, avevano lasciato un segno sulle caviglie. 
Bisogna immaginarselo fatto con rabbia. Poi si liberò dell'abito da sera. Si slegò i capelli e tolse gli orecchini. In un cassetto trovò una maglia di cotone lunga, maschile. La indossò e sembrava quasi più bella, pensò lui. 
Tornò a sedersi, e piano smise di piangere. Le ultime lacrime sgorgavano lente, non era più rabbia, quella era solo malinconia. Lui pensò che faceva male quasi più di prima. 

Smise di piangere. Esausta. Si sistemò sul pavimento, e nell'ultimo rosso raggio di sole dalla finestra, si addormentò. 

domenica 29 aprile 2012

Ora delle stampe

Mi scusi..
Sì? Ce l'ha con me?
Sì, ecco... piove e l'autobus passerà di qui tra una decina di minuti...
Sì, lo so.
E lei è senza ombrello, insomma, mi permetta...le faccio spazio sotto il mio...
No grazie non si preoccupi...
Guardi, insisto, sarà bagnata fradicia...
Non è un problema...
...
E' che non mi piacciono gli ombrelli.
Capisco. Cioè no...come sarebbe a dire che non le...
Non mi piacciono. Mi scusi ci sarà pur qualcosa che non le piace, no?
Sì, il formaggio sul brodo. Ma questo non vuol dir nulla!
Vede! E' la stessa cosa. A lei non piace il formaggio sul brodo. A me, gli ombrelli, non piacciono.
Ma gli ombrelli sono indispensabili, il formaggio sul brodo no.
Questo lo pensa lei.
Mi perdoni la domanda fuori luogo ma, da quanto è che non le piacciono gli ombrelli?
(Sorrise) Da sempre.
E in tutto questo tempo quante volte si è ammalata di polmonite?
Zero. Lei che usa gli ombrelli?
Due.
Vede? E' come il formaggio sulla pasta.
Sul brodo. Ma mi permetta di dirlo, lei è matta! Su, guardi se vuole le lascio il mio ombrello, non importa.
Le ho già detto che sto bene così.
E' completamente zuppa.
(Sorrise di nuovo) Lo vedo.  Lei è asciutto.
Non le piacciono gli ombrelli.
No, non mi piacciono.


lunedì 12 dicembre 2011

Ora della damnatio memoriae

Contemplava il suo essere apolide seduta sul gradino della stazione. Senza appartenenza. Senza un posto dove essere, senza vincoli, come una casa. Senza un posto dove tornare.
Le pungeva l'anima la parola solitudine.
E moriva guardando gli abbracci. Nella stazione, gli abbracci.
Pensò che gli abbracci sono un po' come delle case, posti a cui appartenere. No, i baci no, i baci sono parole che non volano, ma muoiono sulle labbra, non si può appartenere ai baci.
Lo riconobbe tra la folla che andava e veniva.
Appena lui potè sentire la sua voce,
Amami, disse, Amami e portami via. Non ho fretta, ma portami via. Sono nomade stanca di cercare, apolide e sempre costretta a luoghi a cui non appartengo e non apparterrò. Riportami a casa. Ovunque essa sia, riportami a casa.

Un abbraccio.
Casa.
Forse.


giovedì 2 giugno 2011

Ora delle stelline

Mi allontanai dal mondo e mi andai a sedere sulla spiaggia. Quella notte. Mi tolsi le scarpe e mi sedetti lì, davanti al mare e alla luna. Venisti e ti sedesti al mio fianco. Poggiasti la bottiglia sulla sabbia e mi guardasti, lì seduta sulla sabbia, quella notte, con il vestito blu che scendeva sulle cosce e lasciava scoperte le gambe, a contatto con la sabbia fredda.
Nessuna domanda. Stavamo lì, davanti a quella brodaglia scura del mare, la notte, quando nasconde ogni verità e diventa nulla - nulla- e il suono delle onde diventa più silenzioso ma riempie le orecchie più del mattino. E non capisci da dove porti tutta questa malinconia, da quale angolo remoto del mare provenga questa triste follia che ti chiama. Continua a chiamarti e a raccontarti storie - e poi- tra tutte quelle storie, rimane solo la tua.
Fissavamo il mare lì nel suo punto più profondo, nel nero denso della notte, e le voci e i suoni lontani. Ti sedesti al mio fianco il silenzio.
E cominciai a raccontarti la mia malinconia, e tutto quello che portavo addosso.
Era colpa del mare - non so se, o caro sconosciuto, potevi capirlo- ma era tutta colpa del mare, non ci posso fare nulla, è come un'intesa intima, eppure tremenda.
Ricordo le mie parole a stento, ma ricordo bene la tua voce, e la tua, di malinconia, e tutto quello che portavi addosso.
Era una cosa folle. Due che si siedono davanti al mare, una notte, e piangono insieme le proprie vite.
Decidemmo tacitamente che quei momenti finivano nell'oblio nel momento stesso in cui lasciavamo che nascessero. E così fu.
Una cosa folle. Due che si siedono davanti al mare, una notte, e piangono insieme le proprie vite.

giovedì 5 maggio 2011

Ora dei bravissima

[Breve respiro in un periodo così confuso, in un Maggio che non vuole fare il Maggio e si ostina ad essere un Marzo freddo e non troppo felice]

Succede che nel disordine ordinario di questo posto qui dove vivo, ci sia una tua maglietta. Che -è evidente- si distingue dalle altre cose, come se lei sapesse, di non fare parte di questo posto, di non poter far parte del disordine. Le altre cose in disordine se ne stanno lì sullo sfondo. Lei no. Si distingue dal disordine, come un giocatore in trasferta nello spogliatoio della squadra a casa.

L'ho presa. E mi è piaciuto da morire sentirci il tuo odore.
Mi è piaciuto svegliarmi la mattina e trovarla lì, e rubarle un po' del tuo odore.
Mi è piaciuto lasciarla in disordine con le altre cose, senza riuscire mai a metterla in disordine con le altre cose.
Ho sentito il tuo odore affievolirsi pian piano e lei adattarsi al resto. Abituarsi ad essere lasciata tra le altre cose sul letto, e poi essere spostata la sera sulla scrivania. Abituarsi a conoscere le altre cose, il pigiama arrotolato spesso al suo fianco, i fogli sparsi ovunque, le sciarpe, le borse, avrà visto la luce posarsi su dei lei al mattino, e i miei capelli spettinati.

Fino a quando, l'ho presa e l'ho piegata con cura. Ed il tuo odore era sparito. L'ho messa in borsa l'ho riportata da te. Senza più il tuo odore.
E tu l'hai presa tra le mani.

E hai avvicinato il naso. Mi hai sorriso.
E l'hai portata con te.

venerdì 25 febbraio 2011

Ora dei vetri

Una volta il vento piangeva sempre. Che poi piangere non è neanche una cosa brutta, perchè il vento che piange piange e basta, senza nessun rumore. Una volta il vento non faceva nient'altro che piangere, per un dolore lieve, che non merita disperazione. Ma silenziose lacrime insipide, che non portano storie e sentimenti, ma dalla consistenza particolare, che porta in se pezzi di felicità abortiti.

Una volta il vento piangeva sempre, perchè non sapeva fare nient'altro. Per la solitudine. Per il terrore di essere inutile. Per l'angoscia di non essere più amato. Per paura di essere ingombrante.

Una volta il vento piangeva sempre, poi ha cominciato a correre. E da allora non si è fermato, e da allora non ha pianto più.

venerdì 21 gennaio 2011

Ora dei nonsaifareniente

Ti sei addormentato sul divano, un po' rannicchiato per far stare sotto la coperta anche me, che ora durante la pubblicità guardo la tua serenità.
Non posso svegliarti, non voglio farlo, non lo farò.
Ti lascerò addormentato sul divano, perchè sei bellissimo, addormentato sul divano.
Poi mi avvicinerò al tuo orecchio e ti sussurrerò
Buonanotte
e tu farai una smorfia senza neanche aprire gli occhi e ricrollerai tra le braccia di Hypnos.
Ti voglio bene
aggiungo con un po' di soddisfazione, sapendo di non avere la tua attenzione, sapendo che magari farai un'altra smorfia e poi ti lascerò dormire in pace, ma stasera mi va così, di dirti una cosa così, come i bambini.
Ti sei addormentato sul divano, ed è lì che ti lascerò e andrò via, verso il corridoio, quando un sussurro mi fermerà per dirmi
Anch'io.

domenica 2 gennaio 2011

Ora dei Bobert

Mi metto un po' più comoda sopra il tuo cuore,
mi abbracci,
mi abbracci un po' più forte,
credo tu mi stia stritolando,
poi mi riempi di baci,
e con non-chalance mi fai il solletico,
giocherelli un po' con le mie mani,
e ti diverti a mettermi le dita nelle orecchie,
a spettinarmi,
e poi di nuovo a stringermi.
Ebbene sì, sono un peluche.

lunedì 20 dicembre 2010

Ora dei carillon spezzati

Cercò i suoi occhi, ancora così pieni di vita. Le mani scarne cercarono il viso bianco della bambina. Nessuna lacrima, da nessuna parte.
La mano si abbandonò sul lenzuolo bianco, quello con il bordino rosa ricamato e una bambina dai capelli rossi in un tondo azzurro, e sotto, ricamato in corsivo Josephine.
Negli occhi sfilarono le parole.
Perdonami amore mio.

... Morì. In una mattina di Gennaio di non molto tempo fa. Morì. Ma con eleganza, con la stessa eleganza a cui aveva sempre fatto attenzione.

... Non morì. Perchè aveva deciso di non morire. Perchè voleva ancora il tempo di chiedere scusa come si deve. Perchè a lei non piaceva lasciare le cose così, a metà.

giovedì 11 novembre 2010

Ora delle parole grosse

E' passato tanto tempo
dalla vera consistenza delle tue parole
dal gusto dolciastro della tua presenza
dal tanfo di amore malato che lasciavi
nella mia bocca
ogni volta che poi, sparivi.
Ci incontreremo, alla fine, un giorno.
Ci incontreremo e mi riconoscerai
ci incontreremo e ti riconoscerò.
Vivo è il bruciore del disinfettante sulle ferite
che adesso, guariranno,
lo faranno una volta per sempre.
E' passato tanto tempo
siamo passati noi.
Il tuo ricordo non è più motivo di sofferenza
ma un modo per dire a me stessa che,
ora che sto bene con il presente,
forse è giunto il tempo di fare i conti con il passato.

Ci incontreremo, alla fine, un giorno.
Ci incontreremo e mi riconoscerai
ci incontreremo e ti riconoscerò.
e quando
il tempo
sarà,
sorridimi
e abbracciami.

martedì 2 novembre 2010

Ora dei campanelli verdi

Resta.
Nient'altro, mi serve, adesso. Resta. Queste pareti tacite acconsentiranno alla tua presenza. Resta. E lascia che il silenzio ci porti via. Resta. Permettimi di non saziarmi mai dell'odore della tua pelle. Resta. Quando non riuscirò più a distinguere il battito del tuo cuore, dal mio. Resta. Stringimi. Mandami in estasi sfiorandomi il collo. Poi dammi le tue mani. Resta. E se devi andare via, fallo insieme alla luna. So bene che non sei di mia proprietà, però ecco, stanotte, potrei farti da usufruttuaria. Resta. Soltanto questo. Soltanto un po'.

venerdì 17 settembre 2010

Ora dei bigliettini blu

"Smettila di urlare. Picchiami piuttosto, picchiami a sangue..." urlava dentro di se Sam, 10 anni, mentre stava lì incapace di muoversi davanti al triste, solito, spettacolo.
"Smettila di urlare. Picchiami piuttosto, picchiami con tutta la forza che hai in corpo, ma ti prego smettila di urlare, le tue urla mi uccidono sempre di più. Hai ragione tu, se avessi la forza per muovermi, o soltanto per parlare, ti direi che hai ragione, hai ragione, è colpa mia, hai ragione, sono una bestia, hai ragione, faccio così schifo. Ma ti prego smettila di urlare, non ce la faccio, non più. Vorrei abituarmi, davvero, vorrei con tutto me stesso abituarmi a questo, ma ogni volta è peggio, è peggio da sempre, e so che è inutile. Resto così, paralizzato fuori e dentro, con la testa che vorrebbe scappare e rimane intrappolata in questo corpo, piena delle tue urla strazianti. Non riesco neanche più a piangere. Smettila ti prego smettila di urlare, picchiami ti prego picchiami finchè hai la forza, ma smettila di urlare. Ho la nausea, lo stomaco mi si contorce e vorrei riuscire a vomitare fuori tutta la rabbia e la frustrazione che ho dentro, ma non riesco, ogni più piccolo movimento mi è impossibile. Vorrei piangere, vorrei piangere, ma neanche quello mi è permesso. E ora che fai? No, ti prego non cominciare a piangere.No, mamma, no, così mi uccidi. Non so cosa faccia più male, no non mi abbracciare, io ti odio, no non piangere no smettila smettila smettila. Convinciti pure di tutto quello che vuoi, la cosa peggiore è che domani sarà di nuovo uguale, e poi ancora e ancora, e ancora."

giovedì 6 maggio 2010

Ora dei PGM

Si avvicinò al suo petto e scostandosi con la mano i capelli poggiò l'orecchio e cercò il suo cuore. Lo sentì.
-Se vuoi chiedermi...
-Sst. Zitto. Non è delle tue parole che ho bisogno. Non voglio sapere nulla.
-Se c'è qualcosa che vuoi chiedermi, fallo.
Non disse niente. Chiuse gli occhi, lasciò che i capelli castani le nascondessero il volto per poi piangere, silenziosamente, piangere. Non sapeva dove fosse stato, non sapeva da dove venisse quell'odore diverso tra i suoi vestiti, non le importava neanche, saperlo. Però piangeva, silenziosamente e nel più dolce dei modi, piangeva e non staccava l'orecchio dal battito regolare del cuore di lui.
-Non piangere...
Punto i suoi occhi bagnati su di lui e gli mise un dito sulle labbra.
-Ho detto, non parlare.
Si avvicinò alle sue labbra e lo baciò. E in quel bacio c'erano così tante cose, che a vederlo, non si sarebbero potute distinguere l'una dall'altra. C'era rabbia, c'era voglia, malinconia, frustrazione, disperazione, dolcezza, si sarebbe potuto distinguere perfino un po' d'amore. Lo baciava e piangeva, e più le lacrime scivolavano dai suoi occhi scuri, lungo la pelle bianca del viso perfetto, più lo baciava, e più quel bacio si riempiva di tutto. Per poi ritornare con l'orecchio ad ascoltare quel cuore, che sembrava battere più veloce, o forse era il suo, di cuore, a batterle così forte nella testa. E piangeva, silenziosamente, piangeva.

mercoledì 21 aprile 2010

Ora delle cure

Il bambino guardò incerto la ragazza e le sue mani poggiate sui tasti bianchi e neri. La spinse con la manina, cercando di toglierla dallo sgabello, sul quale si arrampicò poco dopo. Trovato l'assetto, lanciò le manine sui tasti, con gli occhi che sbrilluccicavano dalla voglia, occhi che rimasero turbati quando si accorse di non aver ottenuto il risultato sperato.
-Perchè non parla?!
Lei sorrise.
-Non "parla" perchè non sa che dire. Devi dirglielo tu.
-Parla! Paaaarla!
-Non ti capisce, non parla la nostra lingua. Ci vuole tempo per impararla, e una volta imparata bisogna saper trovare le parole giuste, e non è facile.
-Dimmi come si dice "parla"!
-...non parla mica da solo, sta sempre qui fermo e non ha niente da raccontare, però sa bene quello che non dici tu. Non è facile da spiegare...
-Cioè che lui dice quello che io non dico nella nostra lingua?
-Più o meno è così.
-Ah.
Il bambino rimase con lo sguardo indagatore sulla distesa di tasti, poi lentamente allungò l'indice e incerto spinse una delle tante stanghette. Il suono era limpido e semplice. Scese dallo sgabello e fece segno alla ragazza di sedersi.
-Parlaci tu, e digli che non sono antipatico.

lunedì 12 aprile 2010

Ora dei rotoli alla nutella 2

-Oh, guarda guarda cosa ho trovato in mezzo al disordine.
-Cosa? Che c'è?
-E' un ricordo. Uno di quelli che c'è anche nella mia, di testa.
-Mettilo via e vattene.
-Mannò dai poveretto, guardalo...cos'è, ti fa male? Oh, poverina. Ma conosco tanti di quei modi per farti stare male, che non hai idea. Conosco bene i tuoi punti deboli.
-Li conosci, vero. Perchè te li ho lasciati conoscere. Sai anche molto bene che uno dei miei peggiori difetti è quello di non dare fiducia facilmente, quindi hai più o meno idea di quanto io ti abbia voluto bene. Ho messo i miei punti deboli nelle tue mani, ma, sai, come usarli alla fine non è un problema mio. O sbaglio?

[Fine parte seconda]

mercoledì 7 aprile 2010

Ora dei rotoli alla nutella

-E tu che ci fai qui?
-Io non so neanche dove sono... che casino qui...dove sono?
-Dove sia, si dice Dove sia. Sei nella mia testa.
-Non sei cambiata affatto. Mmm, dovresti mettere un po' d'ordine, sai?
-Qui comando io e non accetto consigli da te. Quindi vedi di uscire da lì al più presto.
-Se no che fai, come mi butti fuori?
-A calci nel sedere.
-Non ne hai il coraggio, tantomeno la forza. So bene come farti crollare ai miei piedi, piccola.
-Tu credi?
-Oh sì, sei completamente sotto il mio controllo, non ti libererai mai di me. Posso renderti la vita impossibile. (sussurrando) Conosco fin troppo bene i tuoi punti deboli, posso colpirti e farti crollare da un momento all'altro.
-Non che non puoi.
-Oh sì che posso. (Ghigno)
[Fine parte prima]

sabato 3 aprile 2010

Ora dei troll portafortuna

Era una giornata di sole, e come tutte le giornate di sole lì, la gente affollava il lungo mare, con i loro bambini ed i loro gelati. Lei era seduta ad un tavolino all'ombra con la sua sigaretta e guardava i granelli di sabbia sul pavimento. Vide un paio di scarpe da uomo familiari, e senza alzare lo sguardo dai granelli di sabbia
-Signor Manley, che piacere vederla qui.
disse con un tono sarcastico. Il paio di scarpe da uomo si fermò.
-Ciao Lara, come stai?
-Come sto? Mi chiedi come sto?Come sempre, come sempre. Ho saputo del matrimonio, bravo Manley, bravo, abbiamo messo la testa apposto. E lei com'è... anzi no fammi indovinare, è la più bella donna di sempre.
-Lei è fantastica, sì. Sorride sempre.
La massa di capelli rossi che fissava il pavimento sbuffò.
-Ne ero certa. Sorride. Complimenti Manley, complimenti.
Si sedette affianco a lei e cominciò a fissare il mare. lei sollevò la testa e portò alle labbra la sigaretta, aspirò lentamente.
-Non ha paura a starmi così vicino, signor Manley? Sono il diavolo, io, tu ora vivi con gli angeli.
-"Cosa potrei essere se non la figlioccia del diavolo"?Lara, io ho trovato la stabilità, tu piuttosto, perchè non trovi un buon partito e metti su famiglia?
Lei sbuffò di nuovo. Poi si alzò e si mise di fronte a lui, avvicinò le labbra rosse al suo orecchio
-Ma ti senti, Manley? Citi Edna e parli di matrimonio... la mia anima è dannata, e dannato lo sei anche tu. Hai perso la poesia, Manley, e sei così innoquo adesso...
Prese la mano di lui e la portò tra le sue cosce.
Lui accennò un sorriso, dapprima sereno, poi lievemento turbato. Fu preso da un brivido e rimase immobile. Lei poggiò le sue labbra sulla sua fronte e rimettendosì eretta, cominciò a camminare, lasciandolo così, con quella voce nelle orecchie
"Dannato lo sei anche tu..."

venerdì 19 marzo 2010

Ora della macarena

C'era la pioggia, una pioggia che durava da sempre, o almeno così gli sembrava. Era qualche ora e il cielo non accennava a stancarsi. Così prese una bottiglia di whisky e si mise davanti alla finestra, le luci spente, a contemplare quella tristezza. Era pioggia violenta. Buttò giù mezza bottiglia, poi la poggiò a terra e chiuse gli occhi. Si toccò il viso con le mani, e sotto i polpastrelli sentì la barba che pungeva, sentì le labbra screpolate e gli occhi umidi, le rughe sulla fronte e i capelli bianchi e stanchi sulla sua testa. Cercò tastoni la bottiglia, la trovò, la finì. Poi rimase così per non so quanto tempo, seduto davanti alla finestra con gli occhi chiusi a sentire il rumore della pioggia, mezz'ubriaco e mezzo morto.