Gli stivaletti sporchi e rovinati raggiunsero incerti lo sgabello. La gonna nera, lunga e stretta, non nascondeva quella sua magrezza, e il top rosa pallido le lasciava scoperto l'ombelico, e il ventre piatto. Anche il resto, il collo, il viso, lo sgardo, avevano quella tristezza e quella magrezza. Gli occhi - portava quel corpo senza conoscerne bellezza. Fissava le linee del legno per terra, con il volto all'ombra della lampadina sul soffitto.
-Io li odio. Odio quei loro sorrisi, finti, come la collana che le ha regalato a Natale. Tre euro. Aveva nascosto l'etichetta tra le robe sporche. Odio quel loro finto amore, finto interesse, finta dolcezza, come quando al cambio di stagione lei mi regala le robe smesse della Cate, quelle più brutte e rovinate, le migliori sono destinate all'orfanotrofio, per farsi gentile davanti alle amiche, finte, come tutto il resto. Odio la loro finta bella casa, che pulisco e conosco da cima a fondo, finta, inutile, come tutto il resto. L'unica cosa vera...-
Puntò gli occhi dritti in avanti, rabbiosi, guardò al di là del palco, tra la gente, tra i bicchieri di rhum. Sollevò la gonna e scoprì le gambe, scarne.
-L'unica cosa vera sono i miei lividi. E il silenzio. Quando lei parla di suo figlio, dice che è un bravo ragazzo, si dà tanto da fare, è così assennato. Assennato, ho scoperto cosa voglia dire. Dice che la riempie di orgoglio. E poi si allena, oh come si allena, sempre tra la palestra e i libri. Un metro e ottanta di uomo. Un metro e ottanta di schifo. Sanno tutti in casa cosa succede, quando siamo soli. Una volta ho lasciato una macchia di sangue in salone, visibile, sul pavimento scintillante. Silenzio. All'inizio. Poi peggio.-
Alza gli occhi sul soffitto, oltre, nel vuoto, o forse chissà dove. Di sicuro non erano più in quel vecchio bar.
-Scappare? sì, certo, per andare dove? Come vivere? ... Prima o poi andrò via. Prima o poi avrò una casa vera, anche se piccola, ma vera. Avrò un amore vero, amici veri, veri sorrisi. Dimenticherò lo schifo di questa vita. Prima o poi studierò. E farò veri regali, e riceverò vere attenzioni. Vera gentilezza. Prima o poi. Persino le collane, se pur di plastica, saranno vere. Prima o poi.
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domenica 9 ottobre 2011
sabato 9 aprile 2011
Ora dei racconti
I piccoli sandali di legno fecero un rumore sordo all'avvicinarsi allo sgabello. Bassina, con la sua gonna blu fino alle caviglie e una camicia rosa. Sul volto tante rughe quanti i suoi anni, e gli occhi - umidi- sembrava piangesse. Ma non piangeva.
Con fatica si sedette sullo sgabello e alzò la testa, mostrando al mondo i suoi occhi scuri velati.
La voce pungente, precisa, squillante.
-Certo che me lo ricordo. Sono passati cinquant'anni e me lo ricordo. Me lo ricordo bene. Vivevamo ancora nella nostra prima casa, quella con il pavimento in cotto. Le bambine erano piccole. L'ultima appena nata. Tu uscivi tutte le sere con un tuo amico. A me andava bene, così avevo il tempo per mettere a posto e occuparmi delle bambine. Ero io la madre. Era compito mio. Avevo perso la bellezza, lo vedevo, tre gravidanze e il mio corpo non era più liscio e sodo come prima. Però stavo bene. Era giusto così. A me andava bene. Poi una sera. Risposi al telefono. La maggiore delle bambine giocava con i legnetti, e avevo la più piccola tra le braccia. Tu non c'eri, come ogni sera. Risposi al telefono. Quel tuo amico. Gli dissi che non c'eri e lui mi disse No signora, è lei che cerco, posso parlarle un momento?, Mi dica, risposi, e lui Se le posso dare un consiglio, guardi bene suo marito.
Rimasi immobile, salutai cordialmente e riattaccai. Misi le bambine a letto, misi in ordine la casa, sciolsi i capelli e mi misi in vestaglia. Quella bianca del corredo. Uscii in veranda e accesi una delle tue sigarette. Ero da sola, e piansi. Piansi. Piansi perchè non potevo fare nulla. Piansi perchè lasciarti non era possibile. Non poteva esserlo. Piansi perchè tu magari eri tra le cosce di un'altra. E io non potevo parlare. Piansi perchè dovevo crescere le bambine nella tua casa. Lo feci. Anno, dopo anno, silenzio dopo silenzio. Mi faceva schifo fare l'amore con te. Eppure. Lo facevo per la cosa più bella che la vita mi abbia dato- le mie figlie. Quando tutte e tre se ne andarono di casa.Un giorno ti diedi quel sonnifero. E presi il coltello. E quando ti svegliasti- non potesti picchiarmi. Perchè io non c'ero. E neanche il tuo pisello."
martedì 11 gennaio 2011
Ora delle belle giornate
I piedi nudi, dalla carne chiara, facevano scricchiolare il legno, prima fermarsi a qualche passo dallo sgabello. Aveva solo un vestito sudicio bianco, addosso, dal quale spuntavano le braccia e le gambe, ossute, il collo ed il viso. I capelli bruni scompigliati erano l'unica nota di colore, assieme alle labbra, rosee, accavallate in un morso. Gli occhi sbarrati, anche loro un po' spenti, come il colore della sua carne. Si accasciò a terra.
-Era buio e tu mi baciavi. Mi baciavi ovunque. Ogni tuo bacio bruciava sulla pelle. Mentre questo corpo riprendeva vita, tra le tue braccia. Mi sussurravi che non mi avresti lasciata mai, che da quel momento in poi non avrei più sofferto, non l'avresti permesso. Era buio e ti baciavo. Ti baciavo ovunque. Ogni mio bacio ti diceva che ti amavo. Troppo.
Le mani strisciavano sul legno.
-Figlio di puttana. Ti ho visto avvinghiato a lei. Ti ho visto accarezzarle il ventre rigonfio. Ho visto tuo figlio.
Urlava.
-Avrei voluto morire allora, tra le tue braccia. E non farlo lentamente adesso... La malattia mi mangia. Ma è nulla in confronto al dolore della solitudine. Sputo sulla pietà della gente. E adesso che sto morendo, sento i tuoi baci, ancora, bruciarmi addosso.
giovedì 28 ottobre 2010
Ora dei voli
[Bene, siamo giunti alla quarta donna dello sbagello, ora urge un titolo per una nuova etichetta... si accettano proposte!]
-Oh, Susanna, non piangere per me...
cantava. Con un filo di voce, e muoveva lentamente la testa.
-Cosa mai ne sapete, voi, della polvere del deserto? Cosa mai ne sapete voi, del sangue, e del cadavere di vostra figlia tra le braccia?
tese le mani in avanti, come per mostrare qualcosa, qualcosa che non c'era.
-Ma la morte non è che salvezza. Quando porti una condanna, sulla pelle. Se varcate il confine con il regno della polvere, e non è casa vostra, tornate indietro. C'era una bambina bianca. Aveva le trecce bionde e l'innocenza tra le pieghe delle labbra...
Lente, sul viso, lacrime.
-L'avevano presa due giorni prima ed ora era lì, davanti a me, terrorizzata. C'era anche un'altra bambina. Ma questa aveva la pelle scura, e gli occhi grandi. Ricordo il suo peso nel ventre, mentre scorreva il sangue dentro di lei, sangue... che già non poteva che essere condanna. Ricordo il vecchio, il cui stesso sangue malato mi scorre nel corpo, ricordo il vecchio, pazzo, afferrare la pistola e sparare un colpo, due, verso il corpicino bianco, gridando al cielo di rabbia. Ricordo il corpicino che sussulta e cade a terra. Le mie mani che non sapevano cosa toccare, disperatamente, su quel vestito azzurro macchiato di rosso. E ricordo un altro colpo, partito per sbaglio, e ricordo un altro corpo, che sussulta prima di cadere a terra, e mi guarda, con i suoi occhi grandi, mi guarda. Urlo. La prendo in braccio.
Tra la polvere del deserto c'è una bambina. Che non ha più vita. Ma ditemi se è forse questa, la vita, quando è orrore oltre il confine e squallore nella tua terra. Cosa ne sapete, voi, della polvere del deserto?...
Alza gli occhi, i grandi occhi scuri, che ora guardano, eccome se guardano, puntati in avanti. Con rabbia. Poi d'un tratto, si ripiegano verso il basso.
-Oh, Susanna, non piangere perchè... ho lasciato l'Alabama per restare insieme a te.
mercoledì 24 febbraio 2010
Ora delle colonne in testa
Si sedette sullo sgabello, piccolo e fragile sotto le sue forme accentuate di donna di mezza età, con molti capelli bianchi alla radice e rossicci alla punta. Un paio di vecchi mocassini con un po' di tacco sotto il tallone, le calze coprenti che finivano in una gonna verde scuro che lasciava intravedere i lineamenti dolci e le curve delle cosce, una vecchio cardigan di lana rosa antico da cui sbucavano il collo e il viso, morbido e dolce, dolce fino a quando non si incrociava lo sguardo...
-E' stata l'ossessione. La mia. Non ho mai avuto un uomo per più di due anni. Poi mi lasciavano. Ero bella, sì, ma ho sempre avuto troppa paura, dovevo sapere tutto, con chi sei, cosa fai, cosa ti ha detto, perchè. La paura di perdere qualcosa te la fa stringere tra le mani ancora più forte, senza farti vedere che la stai soffocando.
Uno dei tanti, mi mise incinta. Eravamo giovani, e pensavo che un figlio ci avrebbe fatto rimanere assieme per sempre. Poi cominciai di nuovo ad essere ossessionata dal pensiero che mi tradisse, che non volesse più stare con me, volevo controllarlo, possederlo, avere io nelle mie mani la sua vita, perchè io ero forte, io ero invincibile, io ce la facevo... Un anno e mezzo dopo lui sparì e io rimasi sola con mia figlia. Crebbe, e sin da quando era piccola, per dispetto, non parlava, non mi raccontava nulla, ed io che invece dovevo sapere, dovevo possedere la sua vita, era mia, era mia! Compì diciassette anni, e ricordo che quel giorno litigammo perchè mi disse che non avrebbe continuato gli studi. Poi uscii di casa, e quando tornai erano sparite le sue cose e lei, solo un biglietto, breve, SE PROVI A FARMI CERCARE MI AMMAZZO. Poi più nulla. Non mi rimaneva più niente, più nessuno... avevo soffocato anche lei. Non è più tornata. E io non so dov'è, cosa fa, con chi passa il suo tempo, con cosa si diverte... Oggi compie trent'anni. Ed io sono ancora sola, ma la solitudine è solo la giusta punizione di una vita vissuta soffocando gli altri. E quello che rimane di me è solo una vecchia avvizzita e stanca, inutile, ossessionata e sola.
-E' stata l'ossessione. La mia. Non ho mai avuto un uomo per più di due anni. Poi mi lasciavano. Ero bella, sì, ma ho sempre avuto troppa paura, dovevo sapere tutto, con chi sei, cosa fai, cosa ti ha detto, perchè. La paura di perdere qualcosa te la fa stringere tra le mani ancora più forte, senza farti vedere che la stai soffocando.
Uno dei tanti, mi mise incinta. Eravamo giovani, e pensavo che un figlio ci avrebbe fatto rimanere assieme per sempre. Poi cominciai di nuovo ad essere ossessionata dal pensiero che mi tradisse, che non volesse più stare con me, volevo controllarlo, possederlo, avere io nelle mie mani la sua vita, perchè io ero forte, io ero invincibile, io ce la facevo... Un anno e mezzo dopo lui sparì e io rimasi sola con mia figlia. Crebbe, e sin da quando era piccola, per dispetto, non parlava, non mi raccontava nulla, ed io che invece dovevo sapere, dovevo possedere la sua vita, era mia, era mia! Compì diciassette anni, e ricordo che quel giorno litigammo perchè mi disse che non avrebbe continuato gli studi. Poi uscii di casa, e quando tornai erano sparite le sue cose e lei, solo un biglietto, breve, SE PROVI A FARMI CERCARE MI AMMAZZO. Poi più nulla. Non mi rimaneva più niente, più nessuno... avevo soffocato anche lei. Non è più tornata. E io non so dov'è, cosa fa, con chi passa il suo tempo, con cosa si diverte... Oggi compie trent'anni. Ed io sono ancora sola, ma la solitudine è solo la giusta punizione di una vita vissuta soffocando gli altri. E quello che rimane di me è solo una vecchia avvizzita e stanca, inutile, ossessionata e sola.
domenica 24 gennaio 2010
Ora dei cioccolatini fondenti
Questa è la seconda donna che incontriamo sul palchetto di un vecchio bar e che spiega se stessa con un monologo. La prima è qui.
Arrivò sul palchetto con il rumore deciso dei suoi passi. Pantaloni rigati e senza una piega, la camicia perfettamente stirata e dentro i pantaloni, sotto una giacca grigia con le spalline. I capelli tirati all'indietro in una coda alta e perfettamente ordinata. Un paio di occhiali scuri. Si sedette sullo sgabello, sempre lì, al centro del palco, sotto la lampadina e la sua luce imperfetta.
"E' morta. Stamattina. Mi hanno chiamato e io l'ho trovata lì, morta. Sì è portata il mio odio nella tomba. "Abbassa lo sguardo.
"L'ho sempre odiata. Perchè non c'è mai stata o almeno credo fosse per quello. E quando c'era, non sapeva far altro che urlarci contro. Urlava finchè non le bruciava la gola. Urlava come urlano i pazzi. E io non le rispondevo mai. Sono sempre stata abituata a non reagire, lei mi puntava addosso quegli occhi vuoti del calore che devono avere gli occhi delle madri, io rimanevo impassibile. E la odiavo. Di quell'odio puro. Non riuscivo a starle accanto, figuriamoci a parlarle. Ma più di tutto, non volevo essere come lei. E più la odiavo, più mi accorgevo di somigliarle. Più crescevo più mi dicevo che sarei stata migliore. Ma guardatemi adesso. Sono uguale a lei. Sempre a lavoro perchè è lì che sono brava e mi sento perfetta. Ma come madre, sono una merda. Mi sono sempre riproposta di riuscire a perdonarla e di parlarle, un giorno, prima o poi. Ma non è bastato il tempo, non sono mai riuscita davvero a perdonarla. Come si può perdonare una madre assente che non sa fare altro che urlarti contro? Non sopporto le persone che urlano, il rumore delle urla mi ferisce. Non sopportavo lei. E l'ho lasciata morire così, con l'odio di una figlia addosso. Con l'odio di una figlia addosso."
Arrivò sul palchetto con il rumore deciso dei suoi passi. Pantaloni rigati e senza una piega, la camicia perfettamente stirata e dentro i pantaloni, sotto una giacca grigia con le spalline. I capelli tirati all'indietro in una coda alta e perfettamente ordinata. Un paio di occhiali scuri. Si sedette sullo sgabello, sempre lì, al centro del palco, sotto la lampadina e la sua luce imperfetta.
"E' morta. Stamattina. Mi hanno chiamato e io l'ho trovata lì, morta. Sì è portata il mio odio nella tomba. "Abbassa lo sguardo.
"L'ho sempre odiata. Perchè non c'è mai stata o almeno credo fosse per quello. E quando c'era, non sapeva far altro che urlarci contro. Urlava finchè non le bruciava la gola. Urlava come urlano i pazzi. E io non le rispondevo mai. Sono sempre stata abituata a non reagire, lei mi puntava addosso quegli occhi vuoti del calore che devono avere gli occhi delle madri, io rimanevo impassibile. E la odiavo. Di quell'odio puro. Non riuscivo a starle accanto, figuriamoci a parlarle. Ma più di tutto, non volevo essere come lei. E più la odiavo, più mi accorgevo di somigliarle. Più crescevo più mi dicevo che sarei stata migliore. Ma guardatemi adesso. Sono uguale a lei. Sempre a lavoro perchè è lì che sono brava e mi sento perfetta. Ma come madre, sono una merda. Mi sono sempre riproposta di riuscire a perdonarla e di parlarle, un giorno, prima o poi. Ma non è bastato il tempo, non sono mai riuscita davvero a perdonarla. Come si può perdonare una madre assente che non sa fare altro che urlarti contro? Non sopporto le persone che urlano, il rumore delle urla mi ferisce. Non sopportavo lei. E l'ho lasciata morire così, con l'odio di una figlia addosso. Con l'odio di una figlia addosso."
giovedì 15 ottobre 2009
Ora dei bruchi viola
I suoi tacchi neri si mossero veloci sul palchetto di legno, le calze a rete ed una gonna sopra il ginocchio, un poncho nero da cui uscivano due mani bianche e congelate. E la scompigliata chioma rossa, che contrastava con il violetto delle occhiaie e il pallore del viso. Si sedette sul suo sgabello e portò alla bocca la sua sigaretta, per poi socchiudere le labbra e far uscire il fumo che cominciò a giocare con la luce e la polvere. "Beati coloro che sorridono e non soffrono, e non soffriranno mai. Maledetto il destino, 'fanculo." Il mozzicone della sigaretta sotto il tacco. "Voi, voi che sperate... voi che chiamate amore quella che è solo un'ossessione, e più sapete che non c'è speranza e più mascherate la verità, scappando. Era l'uomo sbagliato. E sono tutti sbagliati quelli che non vi vogliono. Riconoscete la vostra malattia! E non crediate di guarirne in poco tempo. Quando credete di aver raggiunto un risultato, basterà vederlo da lontano e crollerà tutto. Ci ricadrete. E ci proverete ancora e ancora e ancora. Ma io stasera ho posto fine alla mia sofferenza.
Aveva bevuto, era ubriaco fradicio quando è tornato a casa. E' sempre così, torna ubriaco, e mi chiede di portargli un'altra birra. Poi vomita per un quarto d'ora e si addormenta. Come sempre sono andata in cucina e ho preso una birra, l'ho stappata, e dopo averlo baciato, l'ho ucciso. C'era sangue e vetro ovunque. Poi ho preso una sigaretta e sono uscita in giardino. Ora eccomi qua. Rinata. Salva. Libera. Amate, miei cari, amate sempre."
Aveva bevuto, era ubriaco fradicio quando è tornato a casa. E' sempre così, torna ubriaco, e mi chiede di portargli un'altra birra. Poi vomita per un quarto d'ora e si addormenta. Come sempre sono andata in cucina e ho preso una birra, l'ho stappata, e dopo averlo baciato, l'ho ucciso. C'era sangue e vetro ovunque. Poi ho preso una sigaretta e sono uscita in giardino. Ora eccomi qua. Rinata. Salva. Libera. Amate, miei cari, amate sempre."
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